Tutto quello che avrei voluto imparare (e che ho capito troppo tardi)
Storie di maestre, insegnanti e di persone che avrebbero voluto (e dovuto) essere meno brave
Nonna Lina è una donna straordinaria. Ci penso adesso, mentre la guardo, seduta nella sua poltrona della casa di riposo, il suo soggiorno provvisorio per riprendere la mobilità di un braccio rotto per un eccesso di zelo.
- Devo spegnere la luce! - ha pensato di notte, sdraiata nel suo letto a ricostruire un presente che non ha più contorni precisi e un passato più nitido, che però il tempo le ha portato via. Le scale hanno fatto il resto.
Quella luce non si è mai spenta, però, nei suoi occhi piccoli e attenti. Quando le racconti una storia, una vicenda che lei non conosce e che magari ha un sapore antico, ti osserva estasiata, come se avesse ascoltato la storia più bella del mondo. Lei è curiosa, ecco, lo è sempre stata e lo è ancora adesso.
Sta forse in questo mix di curiosità e ascolto il segreto della sua capacità di trasmettere agli altri? Sì, potrebbe essere così. Per questo lei è stata insegnante, per davvero. Ed esserlo tra gli anni 50 e 60 non era una passeggiata di salute.
I paesi erano inghiottiti dalla campagna, le strade nascoste dai sassi, l’educazione non era percepita come qualcosa di necessario: l’obiettivo era portare qualcosa a tavola e la scuola era una distrazione provvisoria in attesa della vita vera e del lavoro duro.
Nonna Lina, la Maestra Masoni, arrivava con la sua 500 rossa fiammante nelle strade di campagna più impervie, portando pane e marmellata per tutti i bambini. Ha insegnato a leggere e scrivere a tanti bambini tra cui Nicola, ipovedente. La sua carenza di vista è stata compensata raddoppiando l’ascolto delle sue parole, della sua richiesta di attenzione e di considerazione.
Quando l’energia di Nicola superava il massimo consentito, Maestra Masoni lo faceva scorrazzare per un attimo nel corridoio, a fare l’aereo. Oppure gli faceva usare la pianola per 10 minuti - Te la suono Paradise, Maè?- In quei suoni e in quei tasti lui ritrovava la serenità e con lui tutta la classe.
Il momento liberatorio e di sfogo non era consentito solo a Nicola, ma a tutta la classe. Era una specie di rituale mattutino: entrata in classe la prima cosa che faceva Lina era far fare una preghiera ai bambini, benché lei non fosse particolarmente credente. E poi partiva l’urlo di liberazione, per scaricare la tensione prima di iniziare la lezione.
In questi gesti, in quelle iniziative della Maestra Masoni, semplici e rivoluzionarie al tempo stesso, ritrovo delle cose che avrei voluto imparare quando ero ragazza, cose che forse ancora oggi, nelle scuole, si insegnano troppo poco.
Ad esempio il fatto che non sia necessario eccellere in tutto, ma è bene trovare tra le mille cose che si fanno una propria unicità. Nicola si ritrovava nella sua pianola, ma noi in cosa ci siamo ritrovati?
Ho letto un bellissimo articolo proprio qui, si chiama Ma tanto tu sei brava, di Succhyny. E racconta la storia di tutte quelle persone che per anni hanno avuto come ruolo quello di essere brave in tutto. Sulle prime file del saggio di danza, con i voti più alti a scuola, quelli che in chiesa leggevano sull’altare perchè leggevano bene, quelli che cantavano da solisti, quelli che ai colloqui il genitore si sentiva dire “lei poteva anche non venire, sua figlia è bravissima!”.
Per carità, so soddisfazioni per i genitori, che con sacrificio ti fanno studiare fino all’università.
Ma in tutta quell’energia che ci è voluta per essere sempre brave e impeccabili, se ne avessi spesa anche solo la metà per cercare davvero la mia unicità oggi probabilmente la mia vita sarebbe diversa.
E la tua vita, come sarebbe?
E poi tra l’altro, un altro effetto collaterale è riuscire ad affrontare i primi approcci con i fallimenti. Perchè quelli, anche se sei brava, arrivano prima o poi. E col senno di poi posso dire: benedetti fallimenti, che ti fanno vedere quello che c’è oltre la patina del “tanto tu sai fare tutto”.
Li ricordo ancora, quasi tutti.
Il pianto dal banco delle elementari per essere andata a scuola senza aver fatto i compiti, perchè mi ero scordata che ci fossero. L’esame orale della certificazione di francese, ai primi anni delle superiori, quando non avevo compreso nemmeno una parola di quello che l’esaminatore mi chiedeva e, per la vergogna, avevo pianto per tutto il viaggio di ritorno, nei sedili posteriori dell’auto dei miei, con il mio compagno Francesco che provava a consolarmi.
Il concorso a Roma per entrare all’INPS: rarissimo caso di scritti superati e bocciatura all’orale (obiettivamente meritata). La tesi di laurea specialistica rimandata indietro 3 volte dal professore, e riscritta tra i ritagli di tempo, mentre lavoravo a tempo pieno.
Questi sono alcuni significativi momenti dei miei fallimenti. E ripeto: Benedetti fallimenti! Solo quando arrivano ti rendi conto delle reali proporzioni delle cose. Magari capisci che quella strada, in fondo, non ti interessava e poi, grazie a quell’episodio, è arrivato qualcosa di più affine a te. Oppure capisci che devi limare qualcosa, perfezionarla, e la volta dopo vai che una meraviglia. Soprattutto capisci che fallire è necessario, umano, fa parte del percorso, che puoi urlare e anche sbattere la testa contro il muro, ma un fallimento prima o poi arriverà. E allora è meglio accettarlo e farsi una bella risata.
Ricordo ancora la sensazione del concorso INPS a Roma: appendevano al muro le liste di chi era passato e chi no.
Noi eravamo una trentina di persone, l’ultimo turno della giornata, stipati in un corridoio, in attesa da molto, troppo tempo. Io ero in piedi da prestissimo, reduce dal viaggio della notte prima. Esausta, frastornata, delusa dall’orale vergognoso.
Dopo aver letto il mio nome tra quelli dei non ammessi e dopo le pacche sulla spalla dei colleghi conosciuti poco prima (quelle pacche sono dolorosissime) sono passata dalla delusione per l’occasione persa, all’angoscia per il tempo speso (male) a preparare quel concorso (sempre nei ritagli di tempo dal lavoro).
Sono uscita da quel corridoio e mi sono seduta su due gradini, all’ingresso di quello squallido palazzo. Non riuscivo nemmeno a piangere, a disperarmi. Ho fatto un grosso respiro e mi sono sentita stupida. Ho pensato “che sollievo!”, in ogni caso quell’incubo era finito.
Ecco, ci sono tante cose che ancora non si insegnano a scuola e che dovrebbero far parte del programma:
Ricorda che non esistono soldi facili, se vuoi arrivare da qualche parte serve per forza sacrificio. Altrimenti o è fumo negli occhi oppure è una truffa.
Impara a capire cosa ti piace e in cosa sei portato. E vai verso quella direzione, anche se pensi che guadagnerai poco (tanto guadagnerai poco in ogni caso.)
Il fallimento fa parte del percorso, quindi impara a conviverci e non prenderti troppo sul serio (sì, fatti un bel pianto, che anche quello fa sempre bene).
Avresti qualche altro punto da aggiungere al nostro programma scolastico ideale?
Tutto questo per dirti che sì, il libro e la storia del mese di giugno parleranno di educazione, di scuola, di insegnanti e di ricerca della propria strada.
Ho scelto per te due libri che trovo molto interessanti su questi temi:
Padre padrone (1975), di Gavino Ledda, un grande classico della nostra letteratura, per conoscere uno spaccato della cultura e dell’educazione nella Sardegna agropastorale degli anni 40-60 dalla prospettiva di chi quegli anni li ha vissuti da bambino e adolescente.
Diario di una maestrina (1957), di Maria Giacobbe, che racconta l’esperienza autobiografica di insegnamento di una donna (diventata poi una scrittrice e saggista molto prolifica negli anni), nella Barbagia degli anni 40-50.
Cosa vuoi leggere questo mese? io sono pronta a tuffarmi in una di queste letture con te.
Osservo ancora gli occhi di nonna Lina.
La guardo sorridere alle sue vicine di poltrona e chiacchierare allegramente con ognuna di loro. Non ricorda quello che ha mangiato il giorno prima, o quello che ha fatto la mattina stessa, ma nei suoi occhi vedo tutta la tenerezza del mondo nel ricordare Nicola, che fuori da casa sua, la casa della Maestra Masoni, urlava: -Maledetto il giorno che te ne sei andata!-
Purtroppo i maestri, come accade anche oggi, vanno e vengono di continuo. Come Tata Lucia, finiscono una missione e ne hanno già una nuova che li attende.
Bistrattati, attaccati da tutti, costantemente sotto la lente di ingrandimento, con le aspettative altissime delle famiglie che si attendono il miracolo educativo. Forse pretendiamo troppo da loro che poi, in fondo, sono frutto anche dell’educazione che hanno ricevuto da altri maestri e dai loro genitori.
Ma diciamoci la verità: chi non avrebbe voluto avere nel suo percorso di studi, almeno una volta nella vita, la Maestra Masoni, a cui poter dire “Maè, te la suono Paradise?”.
Io sono la rubastorie e, se ti piace poter leggere una newlsetter, una storia, un sondaggio e un libro al mese questo è il posto giusto per te (almeno una volta al mese) e quindi vale la pena iscriverti :)